Il 35% del capitale di Poste Italiane passa sotto il controllo della Cassa deposti e prestiti. Il cda della società presieduta da Claudio Costamagna ha approvato ieri l’operazione e ha dato mandato al management di convocare l’assemblea per deliberare l’aumento di capitale, comprensivo di sovrapprezzo, pari a 2,93 miliardi di euro, che consentirà il conferimento della partecipazione. La formalizzazione dell’operazione, sulla quale erano circolate indiscrezioni nei giorni scorsi, è stata sancita in un comunicato del ministero dell’Economia uscito nella serata di ieri, al termine della riunione del board della Cdp.
La scelta di realizzare questo passaggio azionario attraverso un aumento di capitale cela la reale ragione dell’operazione, che non ha una valenza industriale vera e propria. Da come è stata impostata, essa ha come obiettivo principale quello di rafforzare il patrimonio della Cdp e darle maggiore stabilità per affrontare i numerosi impegni di finanziamento a sostegno dell’economia in cui è coinvolta. L’aumento di capitale, a differenza dell’acquisto, non pesa sui conti della società. Ma, soprattutto, è la tipologia del business di Poste a fare la differenza. Cdp controlla in prevalenza attività industriali che per il connesso livello di rischio assorbono molto patrimonio in termini di requisiti di stabilità. L’attività assicurativa e finanziaria di Poste, che però non contiene il rischio tipico delle banche perchè non eroga credito, oltre a essere proficua di cassa assorbe poco patrimonio.
Nell’operazione c’è però un risvolto della medaglia che si legge nel comunicato del ministero. E cioè, il forte potenziale conflitto di interessi legato al cambio del controllo di Poste: la convenzione con la Cdp che remunera la raccolta che la società gestisce per conto della Cassa è la seconda fonte di ricavi per l’azienda appena quotata. Per Poste essere controllata da un soggetto che è anche controparte in un contratto economico non pone esattamente nelle migliori condizioni contrattuali. Un tema sul quale l’attuale azionista di riferimento, il ministero dell’Economia che controlla il 64,7 per cento del capitale, è molto sensibile soprattutto in considerazione del fatto che intende, entro fine anno, collocare sul mercato una seconda tranche di Poste pari al 29,7 per cento del capitale.
Ecco allora che è stata scelta la strada di separare la governance: Cdp potrà solo detenere la partecipazione, mentre «l’attività di indirizzo e di gestione della partecipazione continuerà a essere esercitata dal ministero dell’Economia», si spiega nella nota. Su questo aspetto sarebbe stato molto persuasivo anche l’amministratore delegato di Poste, Francesco Caio, consapevole della necessità di rendere massima la chiarezza al mercato sulle dinamiche che incidono sul business della società. Nel comunicato si spiega che per disciplinare il passaggio della partecipazione (che finirà nella gestione separata di Cdp )e le regole di governance è stato adottato un apposito decreto ministeriale.
In occasione della prossima riunione del consiglio dei ministri, presumibilmente all’inizio della prossima settimana, verrà approvato un Decreto del presidente del consiglio che dovrà fissare i criteri in base ai quali collocare sul mercato la tranche residua del Tesoro.
Il nuovo decreto si rende necessario perchè il precedente Dpcm che ha consentito la privatizzazione di Poste prevedeva la cessione di una quota massima del 40 per cento del capitale. Il pacchetto che passa alla Cdp, destinato a diventare la quota di controllo di Poste, viene valorizzato ai prezzi di mercato. L’aumento di capitale comporterà la diluizione delle fondazioni oggi azioniste di Cdp con il 18,4% al 15% circa. L’operazione, secondo il Mef, non determina l’insorgere dell’obbligo di Opa obbligatoria a carico della Cdp.
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