"LA BORSA È TROPPO PESANTE: IL DATORE DI LAVORO RISPONDE DEI I DANNI SUBITI DALLA POSTINA" - Cass. 23784/15 - di A.F.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, 20 novembre 2015, n. 23784, Pres. Stile – Rel. Esposito
La S.C. si esprime ancora in tema di risarcimento del danno a persona subito dal lavoratore nell’espletamento delle proprie mansioni, e lo fa con la pronuncia in epigrafe con la quale vengono accolte le doglianze di una postina costretta a consegnare la corrispondenza a mano trascinando un borsone dal peso non indifferente, perché nella zona di sua competenza, il centro cittadino, non poteva servirsi del veicolo, un’automobile, messole a disposizione dal datore di lavoro.
La Corte d’Appello di Trieste, con sentenza del 12/5/2009, confermava la pronuncia del giudice di prime cure che, accogliendo la domanda avanzata da una donna nei confronti del proprio datore di lavoro, aveva dichiarato che le lesioni (periartrite cronica scapolo omerale bilaterale) di cui la lavoratrice era affetta erano ascrivibili a responsabilità esclusiva di quest’ultimo, una nota società, e aveva condannato la predetta società al risarcimento del danno biologico, morale e patrimoniale sofferto dalla lavoratrice nella misura di € 36.000,00, oltre rivalutazione e interessi.
I giudici del merito, previo accertamento in fatto della circostanza che la lavoratrice, addetta al recapito della corrispondenza, si era vista assegnare una zona sita in città centro, ove la stessa si recava in autovettura per poi effettuare il giro di recapito tutto a piedi, con peso della corrispondenza superiore a quello di altre zone, nonché della circostanza, posta in rilievo dal consulente d’ufficio, della idoneità di atti ripetitivi, quali quello di sollevamento e abbassamento del borsone, a ingenerare il quadro patologico lamentato, affermava ricorrere i presupposti ai sensi dell’art. 2087 c.c. e degli artt. 3, 4, 16 e 48 D.Igs. 626/1994 ai fini dell’affermazione della responsabilità del datore di lavoro. La Corte riteneva, altresì, che il danno biologico non era coperto da rendita INAIL, per essere stato previsto l’intervento dell’assicuratore pubblico in tal senso solo per effetto dell’art. 13 d.lgs. 38/2000, non applicabile retroattivamente, talché non era effettuabile alcuna detrazione.
Ricorre in Cassazione il datore di lavoro: la Corte, tuttavia, con sentenza stringata ma efficace sancisce che la sentenza di secondo grado, richiamando i dati dell’istruttoria, ha dato conto degli elementi su cui fonda il giudizio riguardo alla responsabilità datoriale (tra i quali l’epoca della messa a disposizione della lavoratrice dei carrelli per trasporto dei borsone, la mancanza di sottoposizione a visite periodiche, l’adozione tardiva dei documento di valutazione dei rischi, le caratteristiche della zona a intenso traffico cui era stata adibita la donna), in ciò rifuggendo da qualsiasi richiamo alla nozione di responsabilità oggettiva.
Va rimarcato, poi, che la statuizione non è censurabile mediante una diversa lettura delle medesime risultanze processuali, come proposta dalla ricorrente a sostegno delle critiche mosse alle statuizioni di merito. La più recente giurisprudenza, infatti, ha avuto modo di chiarire (sent. n. 3161 del 05/03/2002, ord. n. 91 del 07/01/2014) che la denuncia di un vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c. non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l’accertamento dei fatti, all’esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento. Ne consegue che il vizio di motivazione deve emergere dall’esame del ragionamento svolto dai giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione dei procedimento logico-giuridico posto a base della decisione.
Non assume rilevanza, invece, la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti. In altri termini, il controllo di logicità dei giudizio di fatto - consentito al giudice di legittimità (dall’art 360 n. 5 c.p.c.) - non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata.
Una simile revisione si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione dei giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, estranea alla funzione attribuita dall’ordinamento al giudice di legittimità. In concreto il ricorrente, piuttosto che denunciare specificamente un vizio di motivazione nei termini indicati, si limita a prospettare una non consentita diversa ricostruzione dei medesimi fatti mediante la differente valutazione delle risultanze processuali.
In ordine, invece, alla violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2087, 2056, 2059 e 2097 c.c. (art. 360 n. 3), il ricorrente denuncia l’erroneità della sentenza nella determinazione del quantum per il danno biologico, in ragione della indennizzabilità, ai senei dell’art. 10 comma 5 TU 1124/65, del solo c.d. danno differenziale; la quantificazione sarebbe inoltre eccessiva, in ragione della mancata allegazione da parte della lavoratrice di danni ulteriori rispetto a quello biologico. Evidenzia che ingiustamente è stato liquidato l’importo di € 5.700,00 per danno morale, pervenendo così a una duplicazione di riparazioni per la medesima offesa e tenuto conto che i pregiudizi di tipo esistenziale, secondo la recente giurisprudenza, costituiscono solo voci del danno biologico nel suo aspetto dinamico.
Anche tale ultimo motivo è privo di fondamento, poichè la censura relativa alla necessità di limitare l’entità del risarcimento al danno differenziale è priva di autosufficienza per mancanza di specifiche indicazioni in ordine alla sussistenza ed entità del godimento di altre prestazioni finalizzate al ristoro del medesimo pregiudizio, mentre, per quanto concerne il profilo attinente all’entità del danno morale, difettano precise indicazioni riguardo ai termini della proposizione della relativa censura con l’atto d’appello, non risultando dalla sentenza che una censura in tal senso sia stata in quella sede formulata.
Cassazione Civile, Sez. Lav., 20 novembre 2015, n. 23784 - Infiammazione alla spalla della postina: eccessivo carico di corrispondenza e risarcimento
Presidente Stile – Relatore Esposito
Fatto
1. La Corte d’Appello di Trieste, con sentenza del 12/5/2009, confermava la sentenza del giudice di prime cure che, accogliendo la domanda avanzata da M.L. nei confronti di Poste Italiane S.p.a., aveva dichiarato che le lesioni (periartrite cronica scapolo omerale bilaterale) di cui la lavoratrice era affetta erano ascrivibili a responsabilità esclusiva dei datore di lavoro Poste Italiane s.p.a. e aveva condannato la predetta società al risarcimento del danno biologico, morale e patrimoniale sofferto dalla lavoratrice nella misura di € 36.000,00, oltre rivalutazione e interessi.
2.1 giudici del merito, previo accertamento in fatto della circostanza che la lavoratrice, addetta al recapito della corrispondenza, si era vista assegnare una zona sita in città centro, ove la stessa si recava in autovettura per poi effettuare il giro di recapito tutto a piedi, con peso della corrispondenza superiore a quello di altre zone, nonché della circostanza, posta in rilievo dal consulente d’ufficio, della idoneità di atti ripetitivi, quali quello di sollevamento e abbassamento del borsone, a ingenerare il quadro patologico lamentato, affermava ricorrere i presupposti ai sensi dell’art. 2087 c.c. e degli artt. 3, 4, 16 e 48 D.lgs. 626/1994 ai fini dell’affermazione della responsabilità del datore di lavoro. La Corte riteneva, altresì, che il danno biologico non era coperto da rendita INAIL, per essere stato previsto l’intervento dell’assicuratore pubblico in tal senso solo per effetto dell’art. 13 d.lgs. 38/2000, non applicabile retroattivamente, talché non era effettuabile alcuna detrazione.
3.Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione Poste italiane s.p.a. con cinque motivi. Resiste la M. con controricorso. L’ente ricorrente ha presentato memorie.
Diritto
1.Con il primo motivo la ricorrente deduce : violazione o falsa applicazione degli artt. 2087 e 2043 c.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.). Evidenzia che non è sufficiente la sussistenza di una malattia professionale a determinare la responsabilità dei datore di lavoro, in quanto l’art. 2087 non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, talché incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito un danno alla salute per l’attività svolta l’onere di provare l’inadempimento colposo del datore di lavoro nonché il nesso di causalità tra l’uno e l’altro. Osserva che la sentenza impugnata aveva ricondotto la fattispecie a un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ravvisando la responsabilità datoriale senza considerare che le modalità di svolgimento della prestazione da parte della lavoratrice erano state determinate arbitrariamente dalla medesima, la quale in violazione delle direttive ricevute che imponevano l’utilizzo dei motoveicolo aziendale, o previa autorizzazione, dell’autovettura personale, aveva deciso di svolgere le sue mansioni a piedi.
2. Con il secondo motivo deduce: insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5 c.p.c.) per avere la sentenza ritenuto gravose le mansioni assegnate a controparte senza tenere conto che in realtà la gravosità era dipesa dalle modalità con le quali la lavoratrice aveva deciso unilateralmente di svolgere la prestazione, organizzata dal datore di lavoro con l’utilizzo di un motoveicolo
3. Con il terzo motivo deduce insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5 c.p.c.) per avere trascurato che le modalità di svolgimento delle mansioni erano state determinate unilateralmente dal lavoratore in modo arbitrario e imprevedibile rispetto al procedimento lavorativo tipico e alle direttive ricevute.
4. Con il quarto motivo deduce: insufficiente e/o omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Rileva che la Corte aveva escluso il concorso di colpa della M. affermando che la decisione presa dalla lavoratrice di consegnare la corrispondenza a piedi con il borsone in spalla fosse una necessità e non una scelta, pur omettendo di considerare che la zona di recapito prevedeva l’uso del motomezzo per la consegna della corrispondenza e che era stata la dipendente a chiedere di essere autorizzata all’uso dell’autovettura.
5. I quattro motivi illustrati possono essere trattati congiuntamente stante l’intima connessione. Gli stessi, non risultando oggetto di censura il profilo concernente la sussistenza dei nesso di causalità tra l’attività lavorativa e il danno, investono tutti, sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione, l’affermazione della responsabilità datoriale ai sensi dell’art. 2087 c.c., responsabilità che si assume fondata su condotte adottate unilateralmente dalla lavoratrice con riferimento alle modalità di svolgimento dei compiti assegnatile.
6. I motivi sono infondati. La sentenza, infatti, richiamando i dati dell’istruttoria, ha dato conto degli elementi su cui fonda il giudizio riguardo alla responsabilità datoriale (tra i quali l’epoca della messa a disposizione della lavoratrice dei carrelli per trasporto dei borsone, la mancanza di sottoposizione a visite periodiche, l’adozione tardiva dei documento di valutazione dei rischi, le caratteristiche della zona a intenso traffico cui era stata adibita la M.), in ciò rifuggendo da qualsiasi richiamo alla nozione di responsabilità oggettiva. Va rimarcato, poi, che la statuizione non è censurabile mediante una diversa lettura delle medesime risultanze processuali, come proposta dalla ricorrente a sostegno delle critiche mosse alle statuizioni di merito. La giurisprudenza di questa Corte, infatti, ha avuto modo di chiarire (v. Sez. L, Sentenza n. 3161 del 05/03/2002, Rv. 552824, Sez. 6 - 5, Ordinanza n. 91 del 07/01/2014, Rv. 629382) che la denuncia di un vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c. non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l’accertamento dei fatti, all’esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti dei proprio convincimento. Ne consegue che il vizio di motivazione deve emergere dall’esame del ragionamento svolto dai giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente dei mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione dei procedimento logico-giuridico posto a base della decisione. Non assume rilevanza, invece, la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti. In altri termini, il controllo di logicità dei giudizio di fatto - consentito al giudice di legittimità (dall’art 360 n. 5 c.p.c.) - non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice dei merito ad una determinata soluzione della questione esaminata. Una simile revisione si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione dei giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, estranea alla funzione attribuita dall'ordinamento al giudice di legittimità. In concreto il ricorrente, piuttosto che denunciare specificamente un vizio di motivazione nei termini indicati, si limita a prospettare una non consentita diversa ricostruzione dei medesimi fatti mediante la differente valutazione delle risultanze processuali.
5. Con il quinto motivo deduce violazione falsa applicazione degli artt. 2043, 2087, 2056, 2059 e 2097 c.c. (art. 360 n. 3) insufficiente o omessa motivazione in ordine a un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5 c.p.c.) Denuncia l’erroneità della sentenza nella determinazione del quantum per il danno biologico, in ragione della indennizzabilità, a termini dell’art. 10 comma 5 TU 1124/65, del solo c.d. danno differenziale. Inoltre la quantificazione sarebbe eccessiva in ragione della mancata allegazione da parte della lavoratrice di danni ulteriori rispetto a quello biologico. Evidenzia che ingiustamente è stato liquidato l’importo di € 5.700,00 per danno morale, pervenendo così a una duplicazione di riparazioni per la medesima offesa e tenuto conto che i pregiudizi di tipo assistenziale, secondo la recente giurisprudenza, costituiscono solo voci del danno biologico nel suo aspetto dinamico.
6. Anche tale ultimo motivo è privo di fondamento. Ed invero la censura relativa alla necessità di limitare l’entità del risarcimento al danno differenziale è priva di autosufficienza per mancanza di specifiche indicazioni in ordine alla sussistenza ed entità del godimento di altre prestazioni finalizzate al ristoro del medesimo pregiudizio, mentre, per quanto concerne il profilo attinente all’entità del danno morale, difettano precise indicazioni riguardo ai termini della proposizione della relativa censura con l’atto d’appello, non risultando dalla sentenza che una censura in tal senso sia stata in quella sede formulata.
7. Conseguentemente il ricorso deve essere integralmente rigettato. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la società ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio sostenute dalla M., liquidate in complessivi € 3.500,00, di cui € 100,00 per esborsi ed € 3.400,00 per compensi, oltre accessori come per legge e spese generali.
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